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Giovedì 5 gennaio 2012 presso la sala polivalente di Frere ad Acceglio è stato presentato il film-documentario “Piazzati, minàas fitàas”, storia dei bambini in affitto raccontata dal regista Giorgio Diritti , che dopo “Il vento fa il suo giro” si è nuovamente fermato nelle valli occitane per raccontare un triste e duro fenomeno sociale.
L’iniziativa è stata proposta dall’ Associazione Passi in Libertà di Roccabruna in collaborazione con il Comune di Acceglio e la Pro Loco O’Bacco. “Affittare i bambini era il modo per combattere la fame”, è la premessa di Massimo Galaverna alla proiezione del film: “La nostra associazione ha l’obiettivo di far conoscere la montagna ai bambini, non solo sotto l’aspetto del patrimonio naturalistico, ma anche delle persone che la abitano e della loro storia. È importante che tanti bimbi siano presenti qui stasera, per rendersi conto di quanto sono fortunati al giorno d’oggi: sovente si tende a dimenticare o nascondere un passato di povertà non troppo lontano, spostando il problema altrove, in luoghi dove oggi si vivono gli stessi problemi di allora. Essere consapevoli della propria storia può aiutare a maturare un senso di solidarietà che troppo spesso è assente”.


La proiezione del documentario, come al solito girato con una particolare attenzione alla fotografia e alla genuinità dei personaggi intervistati, attraverso le parole, i luoghi e le emozioni ci apre una porta sulla loro infanzia.
Affittare i propri bambini era innanzitutto una necessità estrema alla sopravvivenza, una decisione sofferta dai genitori dettata dall’impossibilità di sfamarli e vissuta con angosciosa rassegnazione dai bambini, consapevoli di poter così essere d’aiuto alla famiglia in difficoltà. Partire non significava tanto guadagnare dei soldi, ma semplicemente aver la possibilità di mangiare un pasto al giorno: si iniziava a varcare il confine verso i pascoli dell’Ubaye all’età di 6 anni, quando i ragazzi potevano già tenere in guardia alcuni animali, toglievano il letame o facevano il fieno; le ragazze solitamente erano addette ai lavori di casa. Si veniva affittati da giugno a settembre, quando le scuole erano ferme, attraversando passi alpini sovente ricoperti di neve e con pericolo di imbattersi in tormente che hanno causato diverse vittime, tanto da istituire un servizio di soccorso e ricoveri di emergenza sui valichi.
In alta Valle Maira il passaggio più temuto era il Colle del Sautron, con i suoi 2719 metri di altezza; le famiglie si radunavano da Prazzo, Ussolo e Acceglio; si dormiva nei fienili a Chiappera e si partiva nel cuore della notte per arrivare all’alba sul confine; giunti al mercato di Barcellonette i padroni sceglievano subito i bambini più forti. Abitualmente non si poteva parlare di affetto nei rapporti reciproci: da un lato c’era necessità di mano d’opera da parte di garzoni che seppur parlando la stessa lingua, il patuà occitano, erano comunque stranieri, “gli italiani”; dall’altra la possibilità di cibarsi con patate, riso, formaggio, pane e latte era già un privilegio che meritava rispetto ed educazione. Come si maturava in fretta a quei tempi, soffrendo in solitudine la lontananza da casa, riflettendo con se stessi e imparando ad aggiustarsi in ogni piccola emergenza quotidiana; ai bambini mancava anche il tempo per giocare, se non semplici passatempi con ciò che offriva il paesaggio quando intorno a mezzogiorno le bestie si sdraiavano per ruminare.
Ancora oggi sui pascoli delle nostre montagne ci sono ragazzi che crescono aiutando i genitori al pascolo, vivono in modo semplice lontano da quella che siamo abituati a chiamare civiltà; eppure quella vita di lavoro e fatica quotidiana li aiuterà ad accettare e affrontare le sofferenze della vita, maturerà nel loro pensiero il valore della compassione e del rispetto per gli anziani.

Queste alcune delle emozioni che traspaiono dal film; al termine della proiezione prende la parola Grazia Monge Roffarello , aiutoregista e scenografa del documentario, residente a Camoglieres di Macra: “L’affitto dei bambini in un’epoca di estrema povertà era una cosa normale; abbiamo cercato di raccontare una realtà senza dare nessun giudizio su questo fenomeno sociale, ponendo piuttosto interrogativi sul senso dell’infanzia e sulla dignità della vecchiaia. Tutto questo rappresenta la vera Storia delle nostre valli, quella fatta dalle persone semplici che le abitano e le rendono vive e dinamiche all’interno della Grande Storia raccontata dai libri di scuola. Il passaggio culturale e linguistico verso la Francia era la normalità prima del fascismo, messo duramente alla prova ma non interrotto dalla guerra; successivamente, anche grazie ad una nuova e ramificata rete viaria, il fenomeno si è trasferito all’interno delle valli, per estinguersi alla fine degli anni ’70”.

“Anch’io sono stato affittato – ricorda la guida alpina locale Nino Perino – anche se non posso di certo paragonarmi ai personaggi del film; sono stato infatti molto più fortunato, dovendomi spostare soltanto da Acceglio alla vicina borgata di Lausetto per tre anni consecutivi, a partire dall’età di 9 anni. Salivo ai pascoli ai primi di maggio e rientravo in paese all’inizio di novembre, perdendo così diversi mesi di scuola ogni anno; ricordo che col mio affitto i miei genitori guadagnavano 5.000 lire all’anno. Ma i miei sogni erano altri: col tempo sono finalmente riuscito a comprare un paio di scarponi a Villaro, che mi sono poi fatto modificare per poter andare a sciare d’inverno. Cresciuto, mi avevano tuttavia trovato lavoro in una carrozzeria a Torino, destino verso la pianura e la città seguito da molti amici del paese e della valle. Il mio compito era di battere le lamiere con i martelli e l’incudine; l’esperienza non mi entusiasmò e tornai prestissimo ad Acceglio, convincendo il parente che mi ospitava a riportarmi a casa. Successivamente scappai ancora, per andare a Sestriere e intraprendere quella che poi sarebbe stata la mia vita sugli sci e di guida alpina. Dei periodi da bambino affittato mi ricordo ancora il menù al pascolo, il più delle volte costituito dal pane secco dell’anno precedente, ma con ben due possibilità: o secco schiacciato su una pietra, oppure bagnato per rammollirlo un po’. Preferivo quasi sempre la prima scelta”.



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